Le donne veneziane, sia nobili che popolane hanno sempre avuto un modo particolare di esprimere la propria femminilità: donne argute, decise, la battuta pronta, e consapevoli del proprio essere persone, oltre che donne.
A Venezia queste caratteristiche venivano definite con un termine ” morbin”: questo brio, questa vivacità, questo modo di sapersi districare tra le attenzioni degli uomini senza offendere, ma lasciando in qualche modo, aperta la strada per continuare a relazionarsi con gli altri senza per questo promettere nulla, esempio eclatante nella letteratura è la descrizione di Goldoni, occhio acuto e sornione sulla civilità veneziana, che seppe così magistralmente descrivere Marietta nelle ” Morbinose ” giovane allegra e piena di vita che fa credere per scherzo ad uomo di essere innamorata di lui , che cade poi, vittima felice del suo stesso gioco, e la ” Locandiera”, giovane donna energica inseguita da uno stuolo di ammiratori, che riesce in qualche modo a gestire queste attenzioni, fino a che non si arrende anch’essa all’uomo di cui si era innamorata!
Questo atteggiamento così disinvolto nelle relazioni sociali, che nulla aveva a che fare con l’essere facili, ma che rifletteva la concezione non ipocrita e bigotta che in altri Stati veniva imposta da unmodo di concepire i rapporti umani, era frutto di un atteggiamento mentale legato ad uno Stato laico, anche se la Religione veniva professata e vissuta quotidianamente (basti pensare alle centinaia di chiese che sono state erette nella Serenissima).
Nel 1761 fu concessa a tale Giovanni Zivaglio la licenza di “fabbricare fazzoletti come si usano nelle Indie e portati anche dalle donne dello Scià di Persia”! Tale “fazzoletto” venne chiamato ” zendado, o zendàle, e altro non era che un grande scialle con lunghe frange confezionato in seta, in pizzo, e, per le popolane più povere, in lana, tutti di vari colori o delicatamente ricamati( dal 1848, quando venne proclamato il lutto per i caduti della lotta di liberazione diventarono rigorosamente neri), ed in seguito venne rinominato scialle (da Scià di Persia, appunto).
Con la loro eleganza e l’innata capacità seduttiva le popolane utilizzarono questo indumento che poteva essere aperto, avvolto, coprire la testa, o maliziosamente lasciare leggermente scoperte le spalle per un’innocente quanto attraente mezzo per far avvicinare i giovani da cui si sentivano attratte e che percepivano in qualche modo troppo timidi per esprimere loro la propria ammirazione: all’avvicinarsi del prescelto con un rapido gesto della mano prendevano un lembo dello scialle e lo facevano volteggiare per ricoprire la spalla, facendo svolazzare le lunghe frange ….le quali, quasi magicamente, andavano ad impigliarsi sui bottoni del futuro innamorato….piccole ragnatele colorate e delicate che impigliavano e imprigionavano il cuore dell’uomo.
Ecco da dove nasce il termine: attaccare bottone (tacàr botòn). Chissà quante storie d’amore sono nate in passato in questo modo: le nostre ave, occhi vivaci, sorriso allegro, sguardo malizioso ed uno scialle “malandrino”.
Come al solito a scegliere era la donna!
Questo post è semplicemente fantastico!
Grande Piera!
Grazie di cuore Walter, sono orgogliosa che ti piaccia. Un abbraccio affettuoso, ciao Piera
Ciao Piera, come sempre bellissimo anche questa piccola “civetteria” di Donna Veneziana. Autobiografico??????? ciao Paolo
Carissimo Paolo, purtroppo solo racconti di nonne, ma se avessi uno scialle…. lo userei, eh, eh!!!!!!!!!!!!!!!!! Un saluto affettuoso, ed un ritrovarci, mi auguro, presto!!!! Piera
Finalmente capito da dove deriva il detto “tacàr botòn”