Alla fine del decimo secolo Venezia cominciò a perseguire una via espansionistica legata all’Adriatico. Questa strada non venne più abbandonata, accompagnata in seguito da una politica espansionistica anche continentale.
Il Doge Pietro II Orseolo , giovane ed intelligente dette il via ad un suo progetto, dopo aver composto i dissidi interni e pacificate le diverse famiglie nobili in nome della dignità nazionale. Egli comprese che soltanto la potenza economica, sussidiata dall’azione militare nei limiti imposti dalle necessità, poteva dare sicurezza, prosperità e grandezza allo Stato.
Con gli Imperi di Occidente e di Oriente stabilì rapporti amichevoli, normalizzandoli con Ottone III (diploma del 992) e regolarizzandoli con Bisanzio mercè il “crisobolo”( sigillo d’oro) di Basilio e Costantino, che stabiliva condizioni di favore nel commercio marittimo.
Una volta assicurata la pace interna, con una legge promulgata nel 997 che condannava ogni sedizione, e regolati i rapporti internazionali per il libero sviluppo dell’espensaione veneziana nel continente e in Adriatico, Pietro II Orseolo si prese cura della sicurezza della navigazione, per agevolare gli scambi mercantili.
L’egemonia economica sull’Istria, stabilita dagli accordi del 933 era fino ad allora molto precaria e ridotta a ben poca cosa, mentre la pressione della Croazia sulla Dalmazia rendeva difficile la vita ai Veneziani che vi risiedevano.
Il disimpegno di Bisanzio per quest’ultima regione significava libertà d’azione per Venezia che, tra l’altro, era in continua lotta con i Pirati Narentani che infestavano le coste, per cui solo con la forza si poteva raggiungere il necessario equilibrio adriatico, raggiungendo una fattiva e concreta fedeltà delle genti rivierasche.
Agli inizi del 1000 l’Orseolo allestì una flotta che partì da Equilio, diretta a Pola. Era la risposta veneziana alle popolazione Dalmate che volevano liberarsi della servitù slava.
Dopo aver sostato a Grado e a Parenzo il doge Orseolo raggiunse Pola, e proseguì verso sud-est, toccando Ossero, Veglia, Arbe, Zara, Traù, Spalato, Curzola, Lagosta e Ragusa.
Le città istriane resero omaggio a Pietro II e giurarono fedeltà a Venezia. La spedizione non si svolse, tuttavia, del tutto incontrastata: vi furono resistenze armate da parte degli abitanti di Curzola e Lagosta, dove si annidavano i pirati narentani.
Con questa fortunata spedizione, approvata da Bisanzio, Pietro II Orseolo prese il titolo di ” Duca di Dalmazia” che integrava quello di “Doge di Venezia”.
Ma non si era trattato di una vera e propria conquista territoriale, perchè i veneziani miravano solamente a raggiungere il dominio del mare. Sotto il profilo giuridico gli ordinamenti rimasero quelli locali, e si raggiunse così l’unità della costa dalmato-bizantina, con l’estromissione dell’influenza slava, per cui una modifica era avvenuta soltanto dal punto di vista politico-militare.
La supremazia di Venezia dell’Adriatico era così assicurata, con l’acquiescenza dell’Impero greco per il quale il dogado dell’Orseolo era diventato un potente alleato.
Per riconoscenza verso Bisanzio il doge inviò nel 1002 una spedizione in soccorso di Bari, assediata dai Saraceni, ristabilendo l’equilibrio nel basso Adriatico. A sancire l’alleanza tra Venezia e Bisanzio il figlio del Doge, Giovanni, sposò Maria, la nipote dell’Imperatore Basilio II.
Le imprese dalmata e Pugliese contribuirono a portare alla città uno sviluppo demografico e urbanistico e alla prosperità e splendore.
Alla morte di Pietro, nel 1008, gli succedettero i figli Giovanni ed Ottone.
Con Pietro Orseolo scompariva una singolare figura di capo a cui, tra l’altro, va attribuita l’istituzione della cerimonia detta “benedizione del mare”, nel giorno dell’Ascensione: una festa nazionale durante la quale il Vescovo di Olivolo tracciava, davanti ai dignitari , al clero e al popolo, il segno della Croce sulle acque della Laguna, a testimonianza della potenza e della grandezza di Venezia.
Questa festa diverrà in seguito quella più completa e significativa dello “sposalizio del mare” quando il Doge dal Bucintoro getterà in acqua l’anello d’oro pronunciando la formula rituale: ” desponsemus te, mare, in signum veri perpetuique dominii”.
Da allora Venezia diverrà una forte e temuta potenza, attribuendosi il titolo di Serenissima, Repubblica forte ed illuminata.
C’è un episodio straordinario e che credo valga la pena di essere ricordato, riguardante l’incontro a Venezia, nel 1001, fra Pietro Orseolo II e l’imperatore Ottone III. Lo racconta un testimone, un veneziano, Giovanni Diacono, nella parte finale della sua opera, l’Istoria Veneticorum, importantissima per le vicende della città dei primi secoli. Lo riporto di seguito dall’edizione moderna a cura di Luigi Andrea Berto, Bologna 1999, Libro IV 56-64 (pp.194-203).55.“Frattanto l’imperatore Ottone, preparandosi a scendere nel regno italico per la terza volta, scelse la via attraverso le correnti del grande lago di Como. Una moltitudine di Longobardi lo accolse nella città di Como, fra i quali c’era il diacono Giovanni, ambasciatore del suddetto duca Pietro, il quale, poiché era ignaro del trionfo (in Dalmazia) del suo signore, annunciò all’imperatore soltanto che il duca era partito per debellare l’ostilità degli Slavi. E, mentre il medesimo Giovanni si stava recando a Pavia insieme con l’imperatore, venne a conoscenza, da alcuni che glielo riferirono, del ritorno e del trionfo del suo signore. A lui, che voleva tornare subito in patria, l’imperatore affidò questo messaggio segreto per il suo signore: egli voleva, se fosse stato possibile, andare di nascosto in qualche luogo sotto la sua potestà e godere della presenza e della sagacia di un così grande uomo e compadre. Il duca Pietro, nonostante avesse ricevuto con molto piacere questo messaggio non riteneva tuttavia essere possibile far sì che un principe di tanti regni potesse facilmente entrare in un territorio straniero all’insaputa dei suoi. Ma, non volendo comunicare ciò a nessuno dei suoi, non parlò e mantenne il segreto nel suo cuore.56. Lasciata Pavia, il suddetto cesare si diresse verso il desiderato soglio romano attraverso i monti della Tuscia. Da lì, nel periodo di astinenza che precede la solennità pasquale, andò a Ravenna. Il duca Pietro gli inviò il medesimo diacono Giovanni. Egli lo accolse cordialmente e cominciò a chiedergli con insistenza ciò che aveva in precedenza domandato. Perciò avvenne che, grazie ai frequenti viaggi del suddetto diacono Giovanni fra entrambe le parti, si esaminò questo progetto. Infine, l’imperatore, accettato un utile consiglio del duca, mentre stava celebrando molto devotamente il sacro giorno pasquale, fece sapere a tutti i suoi maggiorenti che desiderava fare la cura dell’acqua nel monastero di s. Maria in un’isola che si chiama Pomposa e soggiornarvi per alcuni giorni. Quest’isola non è lontana dalla Venezia ed è cinta da una parte dal lido marino, dall’altra dalle acque del Po. Detto ciò, si stabilì il giorno in cui egli si sarebbe recato nella chiesa di s. Marco e dal compadre da lungo tempo desiderato. S’imbarcò allora su una nave con alcuni, ai quali aveva segretamente svelato ciò e si diresse verso il predetto monastero. Qui non pernottò affatto, ma ordinò all’abate e ai monaci di quel monastero di preparare una cameretta nella quale finse di rimanere per tre giorni per prendere l’acqua curativa.57. Fattasi dunque notte, salì su una piccola barca, che il suddetto diacono Giovanni aveva tenuto nascosta presso la spiaggia di quell’isola, mentre lo aspettava. Il conte Eccelino, il quale fu poi fatto duca dei Bavari, Raimbaldo, conte di Treviso, Teuperno, uomo bellicosissimo, Rainardo e Tamo, camerari, Walter, l’unico cappellano e Federico, che poi diventò arcivescovo di Ravenna, salirono insieme nella suddetta nave. Avendo i marinai navigato senza riposo per tutta la notte e il giorno, arrivarono la notte seguente, durante una tempesta, nella chiesa di s. Servolo, la quale si trova non lontano dal palazzo del duca, dove Pietro, il potentissimo duca, attendeva segretamente l’arrivo di un così importante uomo. E poiché per l’oscurità della tetra notte non potevano vedersi a vicenda, fra abbracci e dolcissimi baci del nuovo ospite, il duca così gli parlò: «Se desideri prima vedere il monastero di s. Zaccaria, bisogna che tu vada là subito, affinché tu possa essere degnissimamente ospitato fra le mura del mio palazzo prima del sorgere dell’alba». Entrambi quindi salirono sulla barca; uno andò nel proprio palazzo, mentre l’altro verso il predetto monastero. Dopo che gli fu aperto l’ingresso di quel monastero, entrò nella chiesa. Non vi rimase tuttavia a lungo ma, come era stato stabilito, si recò a palazzo e, ammirata ogni sua bellezza, volle essere alloggiato con due dei suoi nella torre orientale. Per non essere riconosciuto, si era vestito con un abito modesto.58. Il suddetto Eccelino e gli altri incontrarono il duca all’ingresso di S. Marco, mentre tornava dalla messa del mattino. Gli rivolsero parole di saluto da parte dell’imperatore, affinché i presenti non comprendessero il segreto. Il duca volle sapere da loro come stava l’imperatore e dove si trovava. Gli risposero che l’avevano lasciato in buona salute presso il monastero di Pomposa. Dopo averli baciati, ordinò che fossero ospitati vicino al palazzo; egli invece si recò dall’imperatore. Non fu possibile al duca restare per tutto il giorno con l’imperatore nella predetta torre, affinché nessuno dei Venetici potesse in qualche modo sospettare ciò. All’ora di pranzo, si mostrò in pubblico con gli altri, ma alla sera si trattenne cenare e a parlare con il cesare.59. Per consolidare in modo perfetto il vincolo di fedeltà, il cesare sorresse dal sacro lavacro del battesimo una figlia del duca, la quale era ancora una catecumena. Con un atto ufficiale inoltre donò per sempre al duca suo compadre il paleo, che secondo il patto, oltre ad una somma di cinquanta libbre, veniva consegnato dai Venetici e gli promise fermamente di accordargli, da quel momento in poi, secondo le promesse, qualsiasi cosa. Il duca non volle chiedergli nulla, eccetto una piena e perpetua conferma dei possedimenti delle sue chiese e di tutti i Venetici. Il giorno dopo, poiché egli voleva già avere il permesso per partire, il duca volle regalargli dei doni di vario tipo. Egli che non ne desiderava nessuno disse: «Non voglio incorrere nella colpa per la quale qualcuno possa affermare che io sono venuto qui per interesse e non per s. Marco e per amore tuo». Indotto da insistenti preghiere, tuttavia accettò, sebbene a malincuore, un seggio d’avorio col suo sgabello, una tazza d’argento e un boccale finemente cesellato e, dopo essersi baciati, si separarono, piangendo entrambi.60. Eccelino e gli altri sopraccitati presero licenza, non in quel giorno, ma nel successivo. L’imperatore s’imbarcò soltanto con due dei suoi e con il diacono Giovanni e ritornò nascostamente, di notte, nel suddetto monastero. Il mattino si fece inaspettatamente vedere da coloro che lo attendevano e, andato velocemente a Ravenna con la nave del suddetto diacono Giovanni, rese noto a tutti che tornava dalla Venezia. Si meravigliarono molto, perché ciò era difficile a credersi. Tre giorni dopo, il duca fece convocare a palazzo tutto il popolo dei Venetici; svelò loro ciò che era accaduto e tutti lodarono la fiducia dell’imperatore non meno dell’abilità del loro signore.61. In quel medesimo tempo, l’imperatore, appreso che i cittadini di Benevento gli si erano ribellati, li assalì, li soggiogò con forza e ne uccise molti. Fatto ciò, tornò di nuovo a Ravenna; quindi andò nella città di Pavia, dove seppe che i cittadini romani, abbattuto il giogo della sua dominazione, erano insorti contro di lui. Mandò contro di loro un suo patrizio, di nome Zazo, con un esercito e si recò velocemente a Ravenna con una barca.62. In quel periodo, tramite il diacono Giovanni, il cesare inviò in dono al duca Pietro, suo compadre, due ornamenti imperiali in oro di meravigliosa fattura, uno da Pavia, l’altro dalla città di Ravenna. In cambio, mediante il medesimo diacono, il duca gli inviò una cattedra artisticamente scolpita con lamine d’avorio, che l’imperatore ricevette con grande piacere e lasciò nella stessa città, perché vi fosse conservata.63. Da qui volle dunque ritornare nella forte città di Roma, ma, temendo le insidie dei cittadini, salì su un castello, di nome Paterno, dove l’infelice non rimase a lungo sano, ma nel fiore degli anni perse sfortunatamente la vita terrena. Allora, ovunque, i popoli non mancarono minimamente di piangere la sua morte. Il suo corpo fu portato dall’arcivescovo di Colonia e da altri nel palazzo di Aquisgrana, affinché potesse attendere lì il giorno del giudizio con Carlo, suo predecessore di pia memoria”.
Grazie infinite Erminio per le bellissime informazioni che ci hai mandato..spero di rileggerti presto e, per ora, un caro saluto, Piera